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L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE
(THE UNBEARABLE LIGHTNESS OF BEING)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 agosto 1988
 
di Philip Kaufman, con Daniel Day-Lewis, Lena Olin, Juliette Binoche, Derek de Lint, Erland Josephson (Stati Uniti, 1987)
 
Un film, sembra lapalissiano, è fatto per tradurre in immagini delle idee, vuoi delle parole. Raramente ad un film riesce di visualizzare anche soltanto il significato - il suono - di un titolo. Come qui quello, bellissimo, del celebre romanzo di Milan Kundera.

Non cadremo nel tranello di decidere (operazione che solitamente spetta ai letterati, e che altrettanto solitamente si conclude con una sentenza di condanna) se l'opera letteraria è rispettata o meno dalla trasposizione cinematografica. Limitiamoci a notare che Philip Kaufman (il regista di THE RIGHT STUFF - LA STOFFA DEGLI EROI, che si dice sia stato scelto poiché ha trascorso la propria infanzia nelle città dove, dopo Praga, vivono più cecoslovacchi, Chicago... ), Saul Zaentz (il produttore di AMADEUS), Jean-Claude Carrière (lo sceneggiatore di Bunuel), Sven Nykvist (l'operatore di Bergman), e tre attori inglesi, francesi e svedesi (Day-Lewis è il protagonista di MY BEAUTIFUL LAUNDRETTE, Lena Olin dell'ultimo Bergman, DOPO LA PROVA) sono riusciti - forse proprio grazie alla loro eterogeneità culturale - a creare delle immagini che annullano i confini. L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE è infatti un film profondamente europeo, nel suo modo di affrontare liberamente i conflitti spirituali, intellettuali, e comunque astratti. Ma anche, al tempo stesso, tipicamente americano: per il carattere professionalmente pragmatico, positivo - tipicamente americano - della sua fattura.

I confini più difficili da oltrepassare sono quelli spirituali: ed ecco che il film di Kaufman, forse proprio perché riesce a trascendere quelli espressivi, raggiunge quella trasparenza astratta che gli permette di proporre un equivalente visivo alla dialettica spirituale di Kundera. La leggerezza del libertinaggio (con le scene di allegria erotica della prima parte del film), la presa di coscienza del politico, del sociale, ma anche della passione (nelle sequenze dell'arrivo dei carri russi a Praga, assolutamente straordinarie nel loro potere di fondere documento e finzione, Storia e storia... ) e la morte civile e professionale, che precedono quella fisica (nella terza e ultima parte) si sviluppano, e si contrappongono con una facilità, e felicità, deliziosa.

Leggero e contrapposto come il suo titolo, L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE è anche un film squisitamente musicale: non solo perché Kaufman l'ha costruito sulle preziose strutture armoniche di Leos Janacek, ma perché i tre movimenti citati sembrano svilupparsi con la linearità suadente di una sinfonia. All'interno di questa è un continuo alternarsi di contrappunti: l'individuo ed il collettivo, il piacere e la passione, la fisicità e l'ideale, la passione e l'amore, la fuga ed il ritorno, la città e la campagna (che ci riserva, occorre dirlo, i soli momenti espressivamente affrettati del film), la determinazione ed il destino.

Milos Forman aveva rinunciato ad adattare il film, ritenendo l'impresa impossibile: Kaufman dimostra, ed è un'altra delle ragioni che rendono l'opera importante, che non esiste l'impossibilità di tradurre la parola in immagine.

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE nasce infatti da un'opera squisitamente letteraria: ma s'imprime nella memoria come un film imperiosamente visuale. Dal gioco degli attori (indimenticabile Juliette Binoche, con i suoi rossori, la forza e la fragilità di un personaggio - per usare un termine abusato - femminile) all'uso dell'ambiente (una Praga ricreata a Lione, una Svizzera perfettamente credibile, le stanze della passione e le strade della Storia, i luoghi pubblici dove si celebrano i riti collettivi) tutto concorre a creare una dimensione d'insolita levità.

Che inquadri i tumulti per le strade attraverso la macchina fotografica di Teresa, o i giochi erotici di Tomas e Sabina, o ancora la morte al lavoro (per usare la definizione di Cocteau) dell'accorata sequenza finale, lo sguardo di Kaufman sembra toccato dalla grazia: quella che permette di scrivere la storia di tutti in quella di un solo individuo. Quella, appunto, di farci riconoscere in una leggerezza altrimenti insostenibile.


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